Un diritto civico: esistere in sé
[prosegue da qui] Chiamiamo «diritti civici» il diritto di esistere come immigrati, ma senza che questa esistenza sia subordinata a qualche altra finalità esterna ad essa, a qualche altra finalità che essa stessa. E’ il diritto d’esistere in sé, di esistere legittimamente, senza che questa esistenza sia l’oggetto di una necessaria giustificazione – fornita, va da sé, dal lavoro – e di conseguenza dal sospetto. Il sospetto può basarsi sulla necessità della giustificazione, sulla sincerità di quest’ultima, ed è allora il lavoro stesso dell’immigrato che viene denunciato, è il fondamento «giusto» dell’immigrazione che è contestato, rimanendo l’immigrato sempre sospetto di essere superfluo, di troppo, di usurpare la sua presenza. Il sospetto può basarsi anche sulla realtà stessa della giustificazione che l’immigrato può dare alla propria presenza, la realtà contestata, negata, del suo lavoro. Ogni immigrato è quindi individualmente sospettato di essere un «clandestino» , cioè un uomo la cui presenza non è accompagnata da quella giustificazione ultima che è il lavoro che compie e, praticamente, è suscettibile in ogni momento di essere ricacciato nella «clandestinità». Alla fine, ogni immigrato è sospettato d’essere un imbroglione, un mentitore, un clandestino – effettivo o virtuale, poco importa!
Concretamente, è il diritto d’esistere, perfino in quanto disoccupato, e comme tutti gli altri disoccupati, senza vedersi ricordare la propria condizione di lavoratore prima di ogni cosa e più essenzialmente che il proprio essere; senza vedersi rinviato a qualche altra legittimità, a qualche altra origine. E’ giusto qui che si situa la frontiera che separa gli uni dagli altri, quelli che hanno una "qualche parte" in cui essere rinviati, di fatto o di diritto, e quelli che non si può rinviare, né di fatto né di diritto, poichè sono «a casa». E volere che gli immigrati siano effettivamente «a casa» e non solo «come a casa», cioè illusoriamente a casa quando in realtà sono dagli altri, da noi, esige che si diano loro i mezzi e le ragioni di sentirsi "a casa" o, meglio, che si accetti che essi conquistino questi stessi mezzi e ragioni, di cui il diritto di voto rappresenta la condizione e la conclusione di tutto ciò. Altrimenti, come ormai tutti hanno capito, il «fate come a casa vostra» resterà solo una formula di educazione, poichè non sfugge a nessuno, né alla persona invitata, né alla parte invitante, che la frase «sentitevi a casa» (marhaba) non autorizza che «si sia a casa», quanto piuttosto che l’invitato si scusi e ringrazi per tanta sollecitudine a suo riguardo. In caso contrario, egli non sarà che un ingrato, un rozzo, un «barbaro». Educazione e politica*, ancora una volta.[continua]
Abdelmalek SAYAD,L’immigration ou, les paradoxes de l’altérité. Tome 2. Les enfants illégitimes, Ed. Raisons d’Agir, Paris, 2006.
* Nel testo in francese, Sayad gioca sulla somiglianza di "politesse" (buona educazione) e "politique" (politica).
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