Il diritto di voto
[prosegue da qui] Si intende per «diritto civico», il diritto ad essere un attore politico, il diritto ad istituirsi ed essere istituito come attore politico. Questo diritto trova la sua consacrazione ultima nel fatto di essere elettore ed di essere eleggibile. Non è che si debba sottostimare questo aspetto della vita civica, al contrario; ciononostante, anche se il diritto di voto fosse riconosciuto e esistesse formalmente (il diritto di eleggere e il diritto di essere eletti, i due insieme o, quanto meno, il primo), sarebbe sufficiente per cancellare le ineguaglianze e per riparare le ingiustizie delle quali sono vittime gli immigrati esclusi o allontanati dalla decisione politica? Non basterebbe se le condizioni sociali alla base, necessarie per renderlo effettivo e per conferirgli efficacia, continuassero a mancare. Ma queste stesse condizioni, potrebbero esse realizzarsi in assenza di questo diritto fondamentale e indipendemente da esso? L’uno non è possibile senza l’altro. Il diritto di voto, mentre è allo stesso tempo esigenza fondamentale e un diritto all’apparenza elementare, è anche l’esito supremo, la consacrazione ultima, poichè è il diritto ad avere dei diritti, quindi il diritto di rivendicare, lottare e conquistare questi diritti e non di riceverli solamente, di restare in attesa di riceverli. E’ la legittimità ad avere dei diritti che rende legittimi i diritti che si hanno e quelli che non si hanno ancora.
L’evoluzione dei fatti, cioè la realtà stessa dell’immigrazione, più che l’evoluzione delle idee su questo rapporto, fa che sempre di più il «diritto civico», nel sensodell’atto per il quale si manifesta e si celebra la cittadinanza, venga acquisito a partire dal giorno di nascita o della maggior età da un gran numero di persone che si continuano a raggruppare nella categoria di immigrati. Questa evoluzione cambia un po’ i termini nei quali si pone o è posto il problema del diritto di voto. Questo vuol dire che, al ritmo a cui stanno andando le cose, la rivendicazione del diritto di voto sta diventando anacronistica, sta diventando una battaglia di retro-guardia? Una battaglia in ritardo, perchè la realtà sociale, precedendo la trasformazione dei modi di pensare, avrà ragione delle lentezze del corpo e del pensiero politico?
Anche se fosse così, nel diritto niente sarà cambiato.
Al contrario: la rivendicazione non farà altro che crescere e giustificarsi in partenza. La sua soddisfazione diverrà ancora più urgente. Quello che i bambini hanno acquisito, come rifiutarlo ai genitori? In che modo questo diritto potrebbe essere legittimamente portato e pienamente assunto dai giovani? Non si sta per caso ancora lavorando a minare l’unità fragile di famiglie intere, ad accentuare il divorzio che si è ormai oggettivamente installato tra generazioni che non sono state prodotte nella stessa maniera, l’una in continuità con l’altra? La rottura brutale della quale l’immigrazione è senza dubbio una causa parziale e, sicuramente e totalemente, il luogo di applicazione, si troverà per caso trasposta sul terreno politico e, perciò, consacrata nella maniera più solenne. Non si tratta forse di aggiungere allo scarto strutturalmente legato alle differenze di socializzazione, all’interno di due società diverse, dei nuovi drammi, delle nuove fratture, delle nuove distorsioni e discriminazioni all’interno della famiglia, delle nuove ragioni di aggravamento della disqualificazione, della de-valorizzazione delle quali soffre l’immagine dei genitori agli occhi dei figli e, ancor più, ai loro stessi occhi*? Se soltanto questo dis-equilibrio supplementare facesse crescere i bambini! Invece rischia di essere un fatto gratuito o, peggio, di ritorcersi contro coloro i quali ne sono oggettivamente i beneficiari.
Questi ultimi non si sbagliano quando dichiarano di voler avere lo stesso trattamento dei loro genitori o, più esattamente, di voler ottenere per i loro genitori la concessione della nazionalità e della cittadinanza. «Perchè votare? A cosa serve votare, quando i nostri genitori non votano? Bisogna che noi interpretiamo il ruolo dei buoni immigrati rispetto ai nostri genitori che, loro, continuano ad essere ignorati e disprezzati? Si sta forse sanzionando il fatto che noi siamo stati cresciuti e formati nel sistema scolastico francese, che noi parliamo bene la lingua, che si comportiamo come i Francesi, che siamo acculturati? Se significa diventare la cattiva coscienza dei nostri genitori, il richiamo vivente, diretto e carnale di ciò che loro non sono e non possono essere, beh, grazie! Noi non voteremo.».
Detto ciò, finchè ci sarà anche un solo immigrato, il problema del diritto di voto resterà tutto intero. In linea di principio, cioè sul piano delle idee e degli ideali, o ancora della conformità alle esigenza della democrazia – la passione democratica è la passione per l’uguaglianza – il problema non saprebbe essere liquidato nè sepolto. La rivendicazione del diritto di voto resta fondamentale. Diritto di voto almeno in quelle istanze in cui si giocano gli interessi diretti della vita quotidiana e della vita morale!Diritti municipali ed esigenza di «cittadinanza di città», in mancanza dell’accesso ad una cittadinanza piena. Ma non ci si faccia troppe illusioni. Cosa vale un elettore che non può eleggere che un sindaco; che elegge il sindaco ma non il Presidente della Repubblica? E cosa vale questo sindaco eletto almeno in parte da cittadini che non sono come gli altri? Non è quindi come gli altri sindaci;e troverà sempre qualcuno, in qualche occasione, prontoa ricordargli malignamente e insidiosamente che egli non possiede la maggioranza che ha ottenuto, che è stato eletto solo grazie al supplemento di voto che gli viene dai cittadini «minori», cittadini che non sono necessariamente dei «nazionali».
Non si corre oggi il rischio di veder ricostituirsi questa dualità di collegi elettorali e di classi di cittadini: un primo collegio di cittadini di prima classe e un secondo collegio di cittadini di seconda classe; dei cittadini che votano per tutti i mandati ed eleggono tutti i rappresentanti, altri che votano solamente per i mandati locali e eleggono solo il loro sindaco? In questa materia, si sa a cosa rifarsi, La colonizzazione ci ha già familiarizzato con questa discriminazione e, tutto sommato, se bisognasse prolungare il parallelo tra colonizzazione e immigrazione, statuto di colonizzato e statuto di immigrato, tutto lascia pensare che l’immigrato di oggi è lìomologo del colonizzato di ieri. Non è che un colonizzato alla nuova maniera, un colonizzato oltrela colonizzazione. Ancora, se eleggere un sindaco equivale ad intervenire nella vita della città e solamente della città, cosa vale la distinzione alla quale rinvia questo esercizio selettivo, parziale, del diritto di voto e cosa vale la distinzione che si opera, in fondo, tra interessi locali ed interessi nazionali, tra interessi minori e interessi maggiori, tra interessi subalterni e interessi supremi?
Ma che non ci si sbagli. La rivendicazione dei diritti civici nel senso stretto del termine trova il suo vero significato e il suo pieno compimento solo quando tutta una serie di altre condizioni sono soddisfatte. Il diritto di voto è uno strumento per mezzo del quale si decide se non direttamente del proprio destino, almeno di coloro i quali andranno a deciderne in parte. E’ un mezzo di pressione per decidere, accelerare la trasformazione di certe condizioni in vista del loro miglioramento. Sono, all’inverso, queste stesse condizioni migliorate che contribuiranno a strappare il diritto di voto e, ancora di più, a farlo valere. Tuttavia, nell’immediato, le necessità della vita quotidiana, la realtà di tutti i giorni, fatta, sfortunatamente, di violenze accumulate, di discriminazioni di ogni tipo, di relegamento su tutti i piano, di vessazioni multiple, di negazione di giustizia, etc., impongono che ci si attacchi ad un’altra concezione dei diritti civici, una concezione infinitamente più pratica.
[continua]
Abdelmalek SAYAD, L’immigration, ou, les paradoxes de l’altérité. Tome 2. Les enfants illégitimes, Raisons d’agir Eds., Paris, 2006.
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