04/03/2010 – PARIGI
Partiamo come se dovessimo fare il giro di Francia in autostop, zaino da montagna per me e borsone in condivisione per i miei due compagni di viaggio (Peppe e Simona). Andare all’aereoporto per partire…in macchina!
Soliti problemi alla reception: carte bleu che non marcia, grandi attese e scrollate di spalle, poi la signorina balena una soluzione, smanetta un po’ con il suo terminale, mi richiede tutti i documenti e…fatto!Si va!
Il mezzo è una Twingo bianca, comoda e ristretta. Tom-tom. Lettore CD. Tutti i comforts (non ci facciamo mancare nulla)!…tranne il posacenere ;P
Lo zio Tom si rende utile facendoci uscire da Parigi, ma a me che guido sembra che ci stia portando da tutt’altra che verso la nostra emtà, Lyon.
Fuori dall’Ile de France inizia una regione di cui non ricordo il nome, subito prima di incontrare la Borgogna. Molta campagna. Vedere il verde e i marroni dei campi mi rilassa. La vacanza è cominciata.
BORGOGNA
E’ sempre campagna, ma è diversa. Il verde, pur non essendo un verde da quadro, magari manierista come l’affresco della Notre Dame di Lyon, è diverso: ha "carattere", un carattere genuino e curioso nei confronti degli estranei, ma "terra" – quindi può risultare anche un po’ duro – come i bourgognais.
Abbiamo deciso, felicemente, di prendere la Nationale (statale E6) e non l’autoroute. L’occhio ne ha di sicuro guadagnato. Le mie energie un po’ meno (alla fine della giornata avrò guidato x 4 ore, più di 30 kilometri in solitaria).
La prima sosta è in Bourgogne profonde, terra del "miglior vino di Francia", secondo il mio compare e i suoi amici bourgognesi.
Le insegne "Cave" ("cantina") ci ammalliano come sciacalli assessati il miraggio di un oasi nel deserto del Kalahari, e alla fine lasciamo la Nationale per inoltrarci nelle colline dense di vigneti.
Il primo paesello è morto, incrociamo solo un paio di macchine con a bordo sguardi stupiti di vedere essere umani sotto i 50; l’età media del paese è probabilmente intorno ai 60 anni.
Chiesa.
Hotel de ville (mairie).
Cimitero.
La "tradition française".
Un altro segno della sessuagenarietà del paese, sono le panchine sparse ovunque, a costo di restringere la strada a livelli impraticabili. Uscendo dal paese, di corsa, vediamo che le panchine continuano pure in piena campagna collinare, evidentemente tappe della passeggiata mattutina e serale.
Il secondo paese di chiama Jussy. Molto piccolo. Ma molto ricco, soprattutto di cave.
Ce ne sono almeno 3 "pubblicizzate" da cartelli che arrivano fino sulla Nationale. Ma l’impressione è che non ci sia casa che non contenga delle riserve di merlot o cabernet sauvignon ben stipate in ampie cantine fresche o in mansarde areate.
Le case hanno tutte al massimo 3 piani, un bel giardino curato, qualche orto qua e là a mangiare spazio al cemento.
Nella parte alta di Jussy, vicoli stretti delimitati da case basse in pietra, molto "rustichic".
Raggiungiamo la nostra cave: c’è persino un piccolo parcheggio.
Suoniamo.
Sono ormai le 15:30, non risponde nessuno. Sembra anche qui che la vita sia stata sospesa per il sonnellino pomeridiano.
Mentre i miei due compagni di viaggio cercano una toilette, decido di fare un giro. Seguendo il campanile arrivo alla chiesa, arrampicata su se stessa a fasi successive di costruzione. La piazzetta antistante è proporzionata al resto del paese, come buon custume di tutti i paesi di montagna: pochi spazi interni, bastano per le poche anime che popolano i borghi; contrapposti agli sterminati boschi e vigne che si stendono sull’ondulato profilo collinare.
Le spianate parigine mi sembrano un tale spreco, ora.
Poi, un evento mi turba e mi scuote: sento delle urla. Urla di gioco e corsa. Di bambini.
Una piccola scuola elementare, giusto all’angolo della via che sale dalla chiesa, cova una decina di ragazzini dai 4 agli 8 anni. E’ proprio vero che i bambini hanno un rapporto "magico" con la vita: la rappresentano, e sanno donarla anche alle cose inanimate come questo borgo silenzioso e vuoto.
Ripartiamo a mani vuote e gole secche, quindi decidiamo di fermarci al prossimo paese di una certa importanza (per giunta, non abbiamo ancora pranzato).
Anche qui, l’orario è infausto.
Il ristorante-bar-hotel che si affaccia sulla Nationale è aperto. Butto la testa in cucina, facendo salutare la mia presenza. "C’est trop tard pour dinner. La cuisine est fermée" – mi risponde una ragazza sulla trentina intenta ad asciugare le stoviglie. Sbuca anche un signore, probabilmente il padre o il factotum dell’hotel e sottolinea più o meno il concetto espresso (ma io non capisco quasi nulla del suo francese gutturale e mangiato).
La ragazza si sposta dietro il bancone del bar.
Ordino due caffé.
Il suo accento è se possibile ancora più "strisciato" del parigino: in borgogna riescono a mangiarsi le iniziali!
La "musica" è campagnola, un poco ruvida e poco attenta alle diverse sfumature fonetiche della lingua francese (o, almeno, io non riesco a notarle).
Ci serve i caffé – pessimi, come nella quasi totalità dei bar che ho incontrato in Francia – maniere spicce ma cortesi, mestiere della ristoratrice.
Alzo lo sguardo per ripetere il mantra gallico "merci" e mi accorgo che i suoi capelli sono biondi, castani, rossi e arancioni. Tutto insieme.
I suoi occhi incrociano su un punto più vicino alle persone su cui sono posati. "Vede prima".
Le domandiamo dove possiamo trovare una cave aperta a quest’ora, vista la precedente brutta esperienza. Il ristoratrice conosce il territorio: si avvicina alla cartina della zona appesa giusto in parte alla porta d’ingresso, immediatamente dopo la fine del bancone, e comincia ad indicarci una serie di posti. E’ stupendo accorgersi di capire il discorso senza aver compreso una parola sana.
Il consiglio finale è un piccolo paesino che a stento entra nella carta: bisogna giusto tornare indietro per un paio di kilometri ed è fatta.
Si chiama Jussy.
Ringraziamo calorosamente e ce ne andiamo un po’ imbarazzati un po’ scazzati, con la sorte e i suoi scherzi.
Sulla porta incrociamo due poliziotti in procinto di entrare nel bar per una pausa pomeridiana. Il collega rimasto nel parcheggio in macchina ci controlla mentre facciamo il pieno di nicotina all’aria aperta prima di ripartire.
Al loro ritorno rende partecipi anche i colleghi.
Aspettiamo che decidano di avere di meglio da fare, e ci rimettiamo in strada.
Qualche kilometro più avanti, Peppe scorge una cave aperta proprio sul ciglio della strada.
E’ molto più commerciale, tutte le bottiglie sistemate in grossi scaffali di legno, niente a che vedere con il fascino della cantina di campagna. Ma Lyon è ormai vicina e non vogliamo arrivare a mani vuote e bocche asciutte all’appuntamento con Marco che deve ospitarci per la notte.
Prendiamo due bottiglie (un Bourgogne e un Languedoc) e Peppe mi da il cambio alla guida per gli ultimi 150 kilometri…
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