Le riflessioni che seguono sono rimaste troppo a lungo nella mia testa. Non riuscendo ad esprimerle con efficacia a voce, ho deciso di scriverle qua. Non sono niente di speciale, nè nuovo. E’ solo bisogno mio renderle parola scritta per poterle rivedere e utilizzare nel tempo. E’ ancora una volta, questo blog, un archivio. E poi sono le 7 di mattina…
Innanzitutto, “la politica del conflitto”: scrivono Charles Tilly e Sidney Tarrow che la politica del conflitto “implica interazioni nelle quali gli attori avanzano richieste che impattano sugli interessi di qualcun altro e conducono a iniziative coordinate a tutela di interessi o programmi condivisi, e nelle quali sono coinvolti i governi in veste di obiettivo, di detonatori delle rivendicazioni o di terza parte”. Quindi che riunisce tre fattori: il conflitto, la politica e l’azione collettiva.
In ambito antagonista spesso la “grammatica” di base per “impattare sugli interessi di qualcun altro” è quel meccanismo che possiamo chiamare “rapporto di forza conflittuale”, e spesso “l’impattamento” si fa direttamente verso il governo e le sue emanazioni (polizia, amministratori, rappresentanti).
La costruzione di un rapporto di forza conflittuale è un gioco molto sottile, che necessità di diversi elementi e capacità. Vediamone qualcuno in ordine sparso.
Innanzitutto, un rapporto di forza necessita di una “forza” in grado di essere estrinsecata, applicata in un punto, solitamente un simbolo che richiama ad un tema di interesse collettivo, se non generale, e che riguarda direttamente la gestione c.d. “politica” – quindi “amministrativa” o “di governo” – di quella specifica tematica.
La “forza” può essere di molti tipi e può darsi ovviamente molti mezzi attraverso i quali “applicarsi” (nel caso dell’antagonismo, “ogni mezzo necessario”): innanzitutto può essere una “forza” intesa come “capacità di effettuare una certa azione” normalmente in contrasto con il normale fluire quotidiano. In questo senso essa rappresenta una “rottura” temporanea della dinamica “normale” di una parte, anche piccolissima, della società. Questo tipo di “forza” è spesso assimilato e assimilabile alla possibilità di mettere in campo una “violenza”, che risulterebbe proprio dalla rottura temporanea del tempo sociale normale. In realtà, la “violenza”, intesa come violenza fisica, è solo un’infima parta della potenzialità con cui realizzare questo intento e non sempre è la scelta più efficiente/efficace.
Ma può essere una “forza” il solo esprimersi dell’esistenza di una massa di soggetti (persone) dietro un concetto, una parola d’ordine, una rivendicazione – nella forma classica della manifestazione pubblica, per esempio.
Oppure un’azione simbolica – temporanea e nella logica di creare attenzione sul simbolo che viene colpito per metterne in risalto alcuni legami di senso con una particolare situazione reale, politica o sociale che sia.
Una “forza” è quindi comunque sempre una “potenzialità” – all’interno di una politica del conflitto questa potenzialità avrà sempre molto a che fare con la possibilità di rompere l’ordine “normale” delle cose.
Il meccanismo del “rapporto di forza” mira alla costruzione di un differenziale di “forza conflittuale” – quindi in rottura dell’ordine esistente – allo scopo diretto a guadagnare la possibilità di aggiungere questo elemento al “dibattito” di senso intorno ad un determinato tema, problema e alla sua soluzione.
A volte, è il conflitto stesso che si pone come “problema” e che avanza rivendicazioni per la sua soluzione.
Essendo un “rapporto”, il meccanismo del rapporto di forza trova nella controparte il naturale e diretto altro attore, il quale sovente è rappresentato dalle forze dell’ordine in rappresentanza della funzione esclusiva dello Stato – e quindi del governo – del mantenimento dell’ordine.
E’ quindi condivisa dagli attori almeno una definizione di minima di cosa sia “l’ordine”, ovvero il normale svolgimento della vita quotidiana, politica e sociale.
Senza questa condivisione non è possibile che si instauri un rapporto di forza, in quanto non si avrebbe la definizione di un “problema”, di un turbamento della dinamica “normale”.
Ma per essere “politica”, questa situazione deve essere in grado di formulare delle rivendicazioni, con il corollario di avere degli attori specifici e individualizzabili – l’esempio delle banlieue parigine è lampante: la voluta mancanza di interlocutori/individui specifici è il pretesto per espellere la rivolta delle banlieue dal campo del “politico” e trattarlo solo dal punto del “conflitto”, a cui rispondere immediatamente con la repressione militare e in un secondo momento con delle “politiche” che affrontino il supposto disagio: disagio individuato da chi governa, o almeno da essi riconosciuto come tale.
Analizzando alcuni fatti di attualità, legati soprattutto alla situazione italiana e a situazioni specifiche di conflitto, avevo notato un possibile corto-circuito interno alla logica del rapporto di forza.
Per definizione, lo Stato dispone della massima potenzialità di “forza”, questa si violenta. E come tale, nel momento in cui decide di applicarla, salta ogni piano di contrattazione.
Nella situazione italiana, caratterizzata da un ritorno alla logica autoritaria, quindi sempre più spesso si dispiega la forza statale per cancellare ogni emergenza rivendicativa.
Si rende palese quindi come la logica del “rapporto di forza” trovi il suo limite nella stessa definizione degli attori in gioco: dal momento che l’attore con la più alta potenzialità di forza in campo la esercita, nessun “rapporto” altro che repressione (cancellazione dell’Altro rivendicativo) può darsi.
Ora, questo non cancella, non sempre, la forza della rivendicazione, almeno quando si basa non esclusivamente sulla forza pratica.
Forza pratica che deve esistere per poter permettere lo spazio alla rivendicazione, che altrimenti non verrebbe nemmeno presa in considerazione, ma con non può essere la sola dispiegabile, a rischio di venir annulata dalla maggiore forza disponibile dalla controparte.
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