È un libro che lascia perplessi, a metà tra l’indefinibile (in positivo) e l’incompiuto.
Sembra quasi un instant book – tocca tanti temi senza approfondirne nessuno – ma leggendo la bibliografia finale ci si chiede quanto tempo c’abbia messo a leggersi quei 10 titoli?
È un rabbit book, salta da una parte all’altra, cercando di prenderle tutte. A volte offre degli spunti interessanti, dice cose “nuove” (soprattutto per il “grande pubblico”): come quando affronta la “questione sociale” che sta dietro e dentro al rap, le condizioni dei quartieri, il razzismo, quotidiano e istituzionalizzato. Credo che questa parte sia veramente ottima e mi ritrovo in pieno nella lettura socio-politica che viene proposta e che, sostanzialmente, dona al rap una qualificazione di “pratica di resistenza civile” che oppone, anche, alla violenza delle condizioni economiche, della discriminazione, dell’emarginazione una certa violenza di linguaggio, legittima.
Ma altre volte si limita a quella che sembra in pieno una “difesa d’ufficio del rap”. E così facendo non rende un grande servizio proprio a ciò che vuole difendere: per far sì che se ne parli, che si crei dibattito intorno a un tema, bisogna avere un po’ di coraggio e dire certe cose, porre in luce contraddizioni, sollevare polveroni, anche. Invece, e proprio sui temi di più scottante attualità (violenza, questione di genere) si limita al classico invito alla riflessione: “non fermatevi ai titoli dei quotidiani!”. Chi scrive, un po’ per militanza, un po’ per passione per l’hip hop, un po’ per carattere, non si è mai fermato ai titoli dei giornali. Però, mettendomi nei panni di coloro per i quali il libro è scritto – appassionati del genere ma che non conoscono la scena francese; musicofili in genere; sociologi e militanti alquanto a digiuno di tendenze musicali contemporanee – mi chiedo: perchè? Perché dovrei andare oltre i titoli dei giornali? Perché dovrei mettere in dubbio le voci di quelle associazioni di donne che, con una certa fatica, negli anni, sono riuscite a ritagliarsi una legittimità pubblica nel parlare di questioni come la violenza maschile e il machismo? Perché di fronte ho altri marginali?
“Non è tutto oro quel luccica – non è tutta merda quella che calpesti nel prato”. Va bene, ma allora invece di spendere pagine e pagine a mettere in luce interviste, ripensamenti, mezze parole a propria discolpa di questo o quel Mc o gruppo, perché non dirlo chiaro e tondo, subito: “il rap (tutto il rap, non solo quello francese) viene dalla strada, è fatto principalmente da uomini e contiene una certa tendenza machista”. Poi però ci sono anche Keny Arkana, Casey (completamente dimenticata! Una che ha aperto il concerto dei Public Enemy allo Stade de France, Parigi, nel 2009!!! Tanto per restare alla logica mainstream che “pesa” gli artisti in base ai riconoscimenti ottenuti, uno logica neanche troppo lontana da quella degli Awards), e altre donne che parlano di queste cose e dicono questo.
Ci sono i “rappers conscient”: Diam’s, Rocé, Kery James (altro personaggio importantissimo che ha fatto la Storia del rap francese prima con il gruppo Mafia K’1 Fry e ora sviluppando in parallelo la sua carriera da “solista”. Dimenticato: forse a Aubervilliers (93, Saint Denis) quelli del 9-4 – Val de Marne, cintura esterna sud-est di Parigi – non li ascoltano… mah!, non credo proprio!), NTM, SNIPER (Tunisiano, Aketo, Blacko) e tanti altri che non si sono mai sognati di scrivere certe cose, anzi ne parlano in forma del tutto diversa (giusto per fornire una “fonte”, consiglio di ascoltare “Y’a pas de mérite” degli SNIPER, contenuto nello storico album “Gravé dans la roche” nota 1>).
Ci sono i “militanti”: La Rumeur, La Brigade, Medine: su di lui credo di pensarla come Gricinella: smettiamola con la superiorità occidentale, Medine è un “militante musulmano”! La teoria, e soprattutto la Storia, post e de-coloniale già hanno chiarito che le Resistenze prendono forme diverse a seconda dei contesti specifici, delle forze sociali, dei “miti storici” e dei contenuti ideali disponibili in un dato ambiente/territorio. Ma sempre di Resistenza si tratta e come tale io la concepisco (non, quindi, “arab rap” senza specificazioni, ma, al massimo, “militant arab rap”. In musica le attribuzioni territoriali/razziali/etniche (che partono cioè da categorie di tipo ascrittivo, di nascita) non specificano un bel niente, se non al massimo la lingua in cui si esprimono gli artisti (ma allora diventano incongruenti, perché “contenitori” troppo ampi o troppo ristretti. Medine è di origine araba, musulmano, ma rappa in francese, con poche parole arabe la maggior parte delle quali è presa dal Corano (Arabo classico), in quanto è ANCHE francese. Tra l’altro non è nemmeno parigino, ma di Le Havre quindi un “provinciale”. Il fatto che sia “Arabo” – a che percentuale? – è solo una delle molteplici specificazioni possibili, e pertanto l’etichetta è incompleta o, peggio, volontariamente assegnatoria di una categoria marginale, sebbene venga ripresa dallo stesso artista facendone segno di distinzione, in un’operazione di riappropriazione simbolica e personale “classica” nella cultura delle classi popolari). La Musica, anche quella apparentemente “senza contenuti”, parla sempre il linguaggio della Cultura, che si acquisisce attraverso la socializzazione primaria, lo studio e le relazioni sociali c.d. “secondarie”.
Infine, troviamo la una “scena militante” legata più propriamente alle ideologie politiche a noi più familiari (europee): Skalpel, Collective Mary Read, Fils du Beton e la B-Boy Konsian Crew, che uniscono la descrizione della realtà all’analisi delle cause e alla proposta attiva (militante, appunto) di Resistenza che prendono, come fanno Skalpel e il Collective Mary Read, dal comunismo libertario di matrice anarchica; oppure forme resistenziali di opposizione e di lotta, più vicine, anche per linguaggio, ai sentimenti e alle forme espressive dei banlieusards.
Al tizio di cui viene citato lo “scandalo” (che, ammetto, ignoro chi sia) per dei versi in cui parla di voler “picchiare la sua donna” viene attribuita come “attenuante”, o spiegazione vagamente sociologica, il fatto che, come qualsiasi altro attore della “Cultura”, un rapper possa usare metafore e iperboli, che possa “recitare” una parte. Parlare di cose reali in forma di fiction, finzione.
Sono assolutamente d’accordo che questa è una delle ragioni d’esistere del rap, in tutto il mondo. Ma il problema rimane: si può “salvare” un marinaio, ma la nave continua ad affondare comunque.
Se il rap – e chi parla di-sul- per il rap – vuole toccare certi problemi, li deve affrontare come ha sempre fatto dalla prima volta che ha messo su un disco di 2Pac, dei Public Enemy o dei Wu Tang Clan: prendendo posizione. E scatenando dibattiti, anche tramite la provocazione.
Il discorso sulla “forma canzone”, sulla ficionality nel rap non affronta la questione e, alla fin fine, serve solo ad alimentare i flames mediatici contro questo o quel cantante. Ovvero proprio il contrario di quanto si era posto come obiettivo.
Io, nel mio piccolo, ci voglio provare a dire la mia: penso che chi arriva a picchiare la propria compagna non sia un “uomo”, ma un miserabile, e non certo à la Victor Hugo.
“Ieri un giovane mi ha mandato una mail
Dicendomi non ti ascolto più perchè si dice che sei gay
Figlio mio, sono più frocio io che porto la gonna
o tuo padre, che picchia la sua donna”
Dargen D’Amico – Di Vizi Di Forma, Virtù in Di Vizi Di Forma, Virtù (2010)
Un operaio che picchia la moglie perché ha perso il lavoro – magari a causa di un dispositivo di discriminazione in atto – può essere analizzato, da un punto di vista sociale, macro, come un prodotto, una “vittima” della morsa discriminatoria, altamente conflittuale, generata dal sistema economico capitalista nel suo complesso e dai meccanismi propri del settore d’impiego della persona. Ma da un punto di vista personale, che non mi spaventa né indebolisce nel mio discorso definire “etico”, è un uomo che ha perso – temporaneamente magari – Rispetto per gli altri, persino quelli a lui più vicini, e Rispetto per sé, proprio perché arriva a negare il proprio istinto sociale, la tensione “naturale” alla solidarietà verso il simile e il prossimo, nel senso di prossimità, vicinanza, legame.
E il “Rispetto” non è certo un concetto estraneo al mondo dell’hip hop: “rispetto per chi fa la sua cosa”; “rispetto per chi rispetta la scena”; “rispetto per i fratelli”. Queste sono tutte forme “attive” e positive (che aggiungono) di Rispetto: si rispetta qualcuno per quello che fa e non, come spesso la deriva “gangsta rap” lascia intendere, per quello che si è o si ha (più forti, con più amici, con la pistola, con un mucchio di donne attorno, etc etc). Su questo tema parecchi rappers nostrani potrebbero testimoniare la reazione della “scena italiana”, soprattutto quella indipendente e underground ma non solo, al tentativo fatto da alcuni di “importare” il gangsta rap in Italia (in particolare quello della West Coast americana post-Biggie, aka Notorious B.I.G.), a cavallo del 2000 (mi riferisco in particolare ai primi Sottotono, quelli di “Succo alla pera col gin”, per intenderci).
Bisogna essere quindi molto chiari quando si analizza la violenza di certe rappresentazioni: esiste una violenza sistemica che agisce pesantemente sugli esseri umani. Questa può generare (almeno) due reazioni “coerenti e conseguenti” con essa, cioè due modi di applicare, in risposta o reazione, a propria volta violenza: la Resistenza, che si dirige verso le presunte fonti dell’attacco originario; e l’autorità esercitata verso un Altro più debole, che può arrivare fino alla ricerca dell’annichilimento della nuova “vittima”.
La violenza de La Rumeur, insomma, non è la stessa – dal punto di vista “etico” prima di tutto, e solo di conseguenza dal punto di vista sociale, ovvero di classe/etnico, etc etc – di quella rivolta contro le donne (“cagne”, “troie”, “puttane”, tranne le sorelle e le madri, ovviamente!) o contro gli omosessuali.
Queste cose nel rap ci sono, si sanno e si dicono. Peccato che non si riesca mai a discuterne.
Mi auguro che questo libro sia un’occasione per rivitalizzare un po’ il dibattito.
Queste sono le mie 4 barre.
Redcat
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nota 1 Per il lettore italiano si forniscono le traduzioni dei titoli citati: “Gravé dans la roche”=letteralmente “Inciso sulla roccia”. “Incidere” (Graver) ha, esattamente come in italiano, un significato musicale specifico, riferito all’”incisione di un disco”. “Y’a pas de mérite” significa “Non c’è nessun merito/onore” nel senso di “Non c’è niente di cui andare fieri”. Il brano si rivolge proprio ai giovani “banlieusards” ed è strutturato in un lungo elenco di cose di cui non andare fieri, che rappresentano comportamenti fortemente associati alla condotta “banlieusarde”, anche perché realmente diffusi tra i giovani di periferia. E tra questi c’è anche la violenza sulle donne (coetanee o madri). La relazione tra la rappresentazione (esterna, mediatica, anche) e la realtà sociale va indagata. Denunciare solo gli effetti discriminatori della prima rischia, ancora una volta, di espellere la seconda dal dibattito.
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