Volevo condividere con il tutto&niente indifferenziato della Rete questa riflessione che facevo l’altro giorno tornando dal lavoro. Ci sarebbe da controllare le date, mettere dei link, fare manutenzione. Ma ora non ci riesco, non ho tempo. Prometto che mi ci metterò. Se mi spronate (perché vi interessa), può essere che faccio prima.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a diversi fenomeni sociali che, un po’ faticosamente e a volte in maniera forzata, si è riusciti a far “convergere” in orizzonti simbolici e di significato comuni. Si è operata una “sintesi”, anche in senso letterario del termine, di esperienze diverse in varie parti del mondo. Questo è sicuramente un fatto rilevante, perché erano giusto 10 anni che questa “sintesi” non veniva più realizzata a livello internazionale, e neanche si voleva farlo.
Io ero, e francamente sono ancora, tra quelli che non voleva farla.
Però non è per questo, davvero, che vorrei articolare quella che a molti sembrerà una critica e, invece, è solo, ancora una volta, un tentativo di comprendere il flusso in cui siamo immersi, prendendo le “recul” necessario. Mi pare comunque giusto esplicitare la mia posizione all’inizio, per essere chiari, e sinceri.
OccupyEverywhere
Occupy è una forma di movimento sociale. È un’idea che mira ad una pratica. È anche, oggi, un brand globale.
Farne una genealogia non è facile, anche perché è onestamente difficile dire dove inizia un fenomeno sociale e dove un altro ad esso contiguo (che può essere bien una filiazione del primo, una maturazione, o una risposta, una reazione, una competizione, e così via).
Quindi vorrei intanto mettere in fila un po’ di “movimenti” che negli ultimi anni hanno avuto una certa rilevanza, nazionale o internazionale, e che poi, in un modo o nell’altro sono a mio modesto avviso risultati “contigui” (nel senso delineato prima) al fenomeno che oggi porta il nome di Occupy.
(Piccola nota: è un po’ triste che ancora una volta siano gli Usa a prendere, loro malgrado pure, il centro della scena, quando non sono stati i primi, anzi forse gli ultimi, in tutti i sensi e su tutti i piani – pratiche, idee, analisi e prospettive, organizzazione, rapporto con i media. Ma non è una “gara” quindi…O forse si…).
Ottobre 2008: in Italia succede un fatto. Gli studenti si mobilitano contro la riforma dell’Università e della scuola. E fin qui, niente di eccezionale. È dal 2004/2005 che ci sono movimenti universitari, alcuni su scala prettamente locale, a volte monocefali (in cui c’è solo una realtà organizzata di movimento), altri con maggiore ampiezza (credo sia nel Dicembre 2004 – però potrei sbagliarmi – che si va a Roma per il “primo” Assedio a Montecitorio: tanti studenti, qualche scaramuccia nei vicoli, poi ci si ritrova tutti sotto in piazzetta e partono i cori).
A Bologna, nel 2004/2005 si occupa per tre settimane Lettere e Filosofia, per un mesetto un aula della Facoltà di Economia lì vicino – l’aula (di piazza) Scaravilli, ribattezzate Aula Francesco Lorusso per il periodo in cui è vissuta l’occupazione, qualche settimana anche a Scienze Politiche e, per la prima volta dalla Pantera, Giurisprudenza.
È quello un po’ il punto di arrivo e, insieme, di partenza per tutta la mia generazione di compagni e compagne. Nascono collettivi un po’ ovunque. Gruppi politici. Cominciano a delinearsi, molto vagamente e poi via via più definendosi, le aree di movimento (politico).
2008, dicevamo: la Prima Onda.
Il fatto “strano”, e che mette in difficoltà per primi i militanti dei gruppi e dei collettivi studenteschi, è che la mobilitazione “esonda” prima di tutto all’interno del “suo” spazio politico: i collettivi a fatica riescono a contenere l’emergenza di voglia, di idee, di esperienze diverse che si incontrano – e che, bisogna dirlo, tante volte conducono in vicoli ciechi o in voli pindarici, ma tante altre “sfondano” i confini degli spazi politici, dando luogo ad esperienze “eccezionali” – “eccedenza”, ha teorizzato qualcuno. Ma quel qualcuno spesso dimentica di dire – lo diceva però durante la Prima Onda, perché era impossibile non notarlo e non farci i conti, proprio nella pratica quotidiana – che, appunto, l’ “eccedenza” si esprime come tale prima di tutto rispetto al “ceto politico movimentista”.
Oggi, dentro i vari Occupy, pare scontato, anzi tipico di quel tipo di esperienza collettiva, un certo rapporto tra “ceto politico” e “movimento”. Ma allora, nel 2008, non lo era affatto.
Con enorme stupore di molti, io compreso, l’Onda si ripete (è davvero un’Onda, allora!). 2010: di nuovo occupazioni, di nuovo manifestazioni, di nuovo assemblee che riempiono le giornate di centinaia, migliaia di giovani studenti in tutta la penisola. Ma stavolta i gruppi politici hanno imparato come si “cavalca l’Onda” e qualcuno, con un doppio senso vagamente ironico che però solo gli “addetti ai lavori” capiscono, se lo rivendica apertamente, ne fa uno slogan ” di massa”. Lo straniamento per me è forte: lo studente diguno di mobilitazioni si trova proiettato in un immaginario in cui “l’Onda è la realtà quotidiana che noi (qui sta l’ironia, per chi la coglie) vogliamo cavalcare”. È quindi insieme un movimento collettivo di cui fare parte (appartenenza) e un evento storico “da vivere”, non ci puoi fare niente, è così. Saresti forse andato a rompere i coglioni a quelli che hanno tirato giù il Muro di Berlino?Noooo. (estraneità).
Appartenenza e Distanza. Ecco altri due elementi che possiamo utilizzare per la successiva lettura di Occupy.
Francia: nel 2005 molti ricorderanno la Rivolta delle Banlieues (su questo blog sicuramente!lo so che ci venite solo per quello ;P ). E per il movimento cosidetto NO CPE (Contrat Premier Embauche, credo: una forma di contratto d’inserimeno post-universitario che scolpisce la precarietà dello studente in formazione continua nelle leggi dello Stato).
Oggi appare palese che Università e Lavoro/Precariato siano due campi di rivendicazione strettamente legati. Ciò grazie ai movimenti come quelli italiani (2004/2005; 2008/2009; 2010/2011 e il parallelo sviluppo della rete MayDay europea), francesi (2005; 2008/2009 e poi, ancora una volta per “contiguità”, confluendo nella Grève Generale 2010/2011), inglese (movimento contri i tagli, 2011).
In Spagna, prima delle Acampadas degli Indignados, ci sono stati diverse “onde” universitarie, spesso mobilitazioni a carattere locale, cittadino di cui, per riflesso, in Italia ricordiamo soprattutto quelle contro il Processo di Bologna.
Piccolo inciso: il Processo di Bologna è stato abbandonato come obiettivo specifico di mobilitazione, diciamo, ancora prima di iniziare (2004), in quanto considerato “passato”. C’è ritornato qui generando stupore – tra chi non ne sapeva nulla – e un po’ di fastidio – tra chi già c’aveva sbattuto la testa, e perso miseramente – un piccolo lag, microonde concentriche su se stesse e niente di più. Nel resto d’Europa il Processo di Bologna è stato scoperto a decennio inoltrati (2005 e anni successivi) e ha rappresentato un piano di mobilitazione. In Italia si è perso subito (questione di tempi?troppo presto?) e ce lo si è (dovuti) tirare dietro quasi fosse una “zavorra”. Che avanguardia!
Dagli Usa nel frattempo non è arrivato nulla (il che non vuol dire che non ci sia stato, a livello locale e di singoli stati federali, qualcosa).
2011: l’Anno degli Occupy.
È in quel momento che, a cadenza di pochi mesi, inglesi, americani, spagnoli, battuti sul tempo dai francesi della Grève, battono i primi passi di quello che diventerà prima il movimento degli Indignati europei, poi, una volta intervenuti sulla scena gli americani, Occupy. Che non sono proprio uguali.
Il primo, di origine spagnola, è prima spontaneo, introduce importanti esperienze di democrazia diretta (le Assemblee delle Acampadas), ma poi finisce per strutturarsi (troppo?) e impattare sulla dinamica elettorale (un bel colpo l’elezione di Raoy). Il secondo, quello americano, è polite, comunicativo, crea positivamente un quotidiano di lotta inedito (Zuccotti Park a New York; gli altri Occupy verrano in un primo tempo “oscurati” dall’esposizione mediatica dei newyorkesi proprio perché essi sono più “comunicativi”, “mediatizzabili”). Poi si “scoprirà” che gli Usa hanno 6/7 fusi orari di estensione e mentre a New York manifestano sui marciapiedi, a Oakland ci si scontra con la polizia e si prendono contatti con portuali, operai e lavoratori per i due Scioperi Generali che entreranno nella Storia, se non altro quella delle date e degli eventi da Enciclopedia: il primo organizzato su scala prettamente cittadina, il secondo “Generale”, ma che dico “Globale”, il Primo Maggio o giù di lì di questo 2012.
E qui ci si imbatte in un altro elemento, più problematico altrove: studenti (e giovani in genere)e operai uniti nella lotta!
In Francia lo hanno fatto per “primi”, durante la Grève génerale che “introduce” in un certo senso il ciclo Occupy, ma che molti non sanno collocare rispetto alla versione newyorkese.
In Italia qualcosa su questo terreno è stato provato soprattutto durante le Onde, la Prima ma ancora di più la Seconda e la sua coda (2010/2011). Lotte però specifiche, locali, episodi verrebbe da chiamarli, sebbene abbiano un’ampia eco mediatica: la INSEE a Milano e l'”estate sui tetti delle fabbriche” (2009?) un po in giro per l’Italia. Poi le “gru” (la cui filiazione è evidente) migranti di Brescia 2010/2011 e ancora di Milano (2011/oggi). I disoccupati organizzati di Napoli e le avanguardie romane dei precari prima dei call center, poi dello spettacolo e dei servizi.
Ma la connessione è debole, a parte qualche esperienza locale. Viene in parte ripresa oggi (2012) per quanto riguarda i campi del sociale e comunque attinenti alla cultura, ma niente fabbriche e niente “precariato immateriale” (quelli che vanno in ufficio, per intenderci).
Ci provano a livello di ceto politico, con aggregazioni pre o post elettorali, ma non dura (Uniti contro la Crisi sarà durato tre mesi, per poi cambiare nome un altro paio di volte e finire con dei “miseri” buoni rapporti tra pezzi di sindacato e un pezzo di movimento (politico).).
Idem, da quello che posso saperne, in Inghilterra dove a parte le connessioni con gli operatori sociali (che danno vita ai fantastici “kindergarten” occupati a tempo determinato nelle sedi delle Banche) non appare esserci molto altro sul fronte lavoro/precariato.
I newyorkesi non sono tutti studenti, anzi. Però il loro fortunato slogan “we are the 99%” taglia fuori qualsiasi discorso (pubblico per lo meno) di “classe”: 99 contro 1, e mo’ so cazzi vostri!Bam!
A Oakland, ma anche Los Angeles e San Francisco, in occasione del MayDay (Primo Maggio Globale) invece si vede una soggettività legata al mondo del lavoro e che si manifesta come tale.
Tornando all’Italia, perché porre ora il tema del “riflusso” (che rompipalle che sei!)?
Semplicemente perché ce ne sono tutti i segnali.
Da un lato i ceti politici, le aree, hanno scazzato e fanno fatica a parlarsi (il 14 Dicembre, celebrato come la nascita di un “nuovo soggetto sociale” è stato, oggi si può dirlo, il punto di deflagrazione in cui diversi processi, collegati a fenomeni politici paralleli, sono conflagrati per poi disperdersi). Qualcuno è partito per la tangente, qualcun altro ha cercato di abbeverarsi alla fonte dei più freschi Occupy. Qualcuno, forse i più saggi dico io, è ripartito dal locale e dall’ultralocale (le varie esperienze di “sindacalismo metropolitano”, ma anche molti centri sociali).
La cosidetta “soggettività emergente” o “eccedente” si è ritirata, alcuni continuando la militanza, altri trasformandola in attività culturale/sociale e perché no, anche lavorativa. Cmq, in qualche modo, si è fatta “privata”.
Il discorso sui “beni comuni”, che aveva avuto il merito di “aprire” la questione degli spazi pubblici di aggregazione, dibattito, manifestazione, si sta richiudendo sulla difesa delle posizioni (le varie occupazioni, autogestioni, esperienze collettive radicate localmente che oggi cercano disperatamente un modo, anzi proprio uno spazio per continuare ad esistere). Discorso a parte meritano i No Tav, ma non è di loro che stavolta si sta parlando.
Detto ciò, credo che non si debba vivere il riflusso come una “colpa”.
Anzi. (E lo dico anche con un certo fastidio) mi piacerebbe che si mostrasse la maturità di capire che il “movimento” in Italia è in giro almeno dal 2008. Ed è normale che sia stanco. Persino gli Occupy si stanno già “ritirando” nella dimensione locale (vedi intervista a Graeber). E loro hanno appena cominciato (non sono più allenati, che ci vuoi fare!Trentanni di consumismo globalizzato non sono leggeri da smaltire).
Dichiarare il “riflusso” significa quindi rendersi conto che la prospettiva deve cambiare. Per chi ci vuole mettere del sudore, a mio modesto parere è il momento buono per costruire (o ricostruire, in molti casi). Non solo i rapporti politici. Non proprio una “potenza” mobilitativa. Costruire progetti. Progetti che abbiano però una prospettiva temporale di un certo respiro, progetti che abbiano una consistenza organizzativa anche di un certo spessore (che non vuol dire “creare le strutture”: si può benissimo sperimentare le forme più aperte della partecipazione, anzi credo che sia necessario, che in un certo senso lo impongano i movimenti appena passati, se si vuole ripartire dalla linea tracciata e non scivolare indietro. Lì si dentro una fase di “riflusso storico” (come successo in Italia ma non solo dal 2002 al 2005 e forse anche oltre) . Credo sia il tempo di gettare le basi per la prossima “ondata”, possibilmente ripartendo da dove siamo arrivati con questa, sperando che duri quanto quella appena passata (2008-2012) e che non ci metta altri 10 anni a mostrarsi (da Genova al 2008). Semplicemente perché credo che non possiamo permetterceli, ora, 10 anni.
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